Il piacere di sapere “perché ci si comporta così”.

Vi racconto una mia esperienza.

Anni fa (quando ero ancora nel pieno della mia formazione in counseling), tornando a casa dal lavoro, stavo ripensando alla giornata trascorsa e molti erano i pensieri che mi affioravano alla mente.

Il caso di cui mi stavo occupando non era né diverso né più complicato di quelli che ero solita gestire. Tuttavia mi aveva colpito.

Il comportamento della mia utente mi aveva spiazzato. Mi ero sentita tradita (forse parlare di tradimento è eccessivo, ma uso questo termine per far capire l’amarezza che ho provato).

 Ora mi spiego.

Il mio lavoro di Assistente sociale consiste nel tutelare, supportare le persone in momenti di disagio, nell’aiutarli a risollevarsi e, la dove è possibile, a ricostruire la loro vita. Tutto questo l’ho sempre fatto mettendo a disposizione il mio tempo, il mio sapere, le risorse trovate e, soprattutto, astenendomi dal giudicare. Sono convinta che nella vita tutto può succedere, che ognuno fa il possibile per stare in piedi, che bisogna rispettare il dolore e l’esperienza altrui.

Eppure mi ero accorta che tutto questo non bastava. A volte essere sinceri, disponibili, collaborativi creava nell’altro un diritto, quello di approfittarsi di te.

Ero delusa, non della mia utente, ma di me. Credevo che anni di lavoro e di esperienza sul campo mi avessero insegnato a non stupirmi di nulla, ad essere consapevole che non sempre le cose vanno come vorresti, ad accettare ” il tradimento”. Invece, a quanto pare, non ne ero capace.

Tempo dopo, portando come esempio ciò che mi era accaduto, (ormai la mia formazione in counseling olistico relazionale era terminata da tempo e continuavo a studiare e specializzarmi) feci osservare ai miei tirocinanti come in quella circostanza avevo messo in atto quella parte di me che, tecnicamente, si chiama Agency (gentilezza automatica).

Ossia quel modo di comportarsi che ti porta ad essere altruista e generoso. Il soggetto che lo agisce vede tale comportamento come unico modo conosciuto per relazionarsi con il mondo, con gli altri, a totale discapito del “soddisfacimento” dei propri bisogni.

Non c’è nulla di sbagliato in questo, ma non è funzionale.

Condizionare la propria serenità o felicità alla serenità o felicità degli altri, siano essi partner, figli, utenti o amici, ti porta ad avere aspettative inconsce.

Inoltre, quando siamo in Agency, o nelle cosiddette Difese Caratteriali, siamo lontanissimi dalla sensazione di radicamento in noi stessi e viviamo uno sfinimento emotivo non da poco.

Essere esclusivamente in Agency favorisce sicuramente la relazione con l’altro (sei a sua completa disposizione!), ma non gli permette di crescere, di autodeterminarsi.

Il “tradimento” della mia utente era semplicemente la conseguenza di un mio comportamento. Lei sapeva molto bene che qualsiasi cosa fosse accaduta, o qualsiasi decisione avesse preso, io sarei corsa in suo aiuto, cercando di risolvere, sistemare, riprogrammare.

Del resto, solo così io mi  sarei considerata “brava”, una vera professionista.

Invece, ero io ad avere un bisogno e cioè che tutto procedesse per il meglio, non lei.

Vi ho raccontato tutto questo perché anche nella vita di tutti i giorni spesso ci troviamo in questa situazione.

Pensiamo che dire sempre sì, caricarci dei problemi altrui, sia l’unico modo per andare avanti, per sollevare i nostri affetti dal dolore, dalla fatica e per far sì che nulla crei scompiglio.

Aiutare è importante, ma sostituirsi all’altro no. Questo comportamento con il tempo genera malessere da ambo le parti.

Certo, modificare il proprio modo di agire non è facile. Tante sono le paure e le convinzioni…” ho sempre fatto così”, ” se cambiassi non capirebbero”, ” mi sentirei egoista”, ” senza di me non ce la farebbero”, ecc. …

Tuttavia, conoscere le modalità con cui agiamo, ossia le parti del nostro carattere, ci permette di non sottometterci ad esse e di produrre dei veri e propri cambiamenti nella nostra vita e in quella degli altri.

Sicuramente avrete notato che molte volte più si fa e più questo non viene riconosciuto, dato per scontato o addirittura giudicato (“… avresti potuto fare così….”, ” c’è da fare questa cosa, però prima ricordati di fare questo, quello..”, ” eh, che barba non ti si può dire nulla, ti volevo solo dire come fare …”, ecc. .. .) e che, spesso, inoltre, per l’altro diventa automatico chiederci qualunque cosa, anche quello che potrebbe fare da solo. Sembra quasi che si inneschi una sorta di de-responsabilizzazione verso la vita.

Invece, se ci ricordiamo che gli altri hanno delle risorse per farcela da soli e che non hanno sempre bisogno di noi e della nostra supervisione, gli permettiamo di fare esperienza, di mantenere una certa autonomia e di avere rispetto di se stessi e degli altri.

Il nostro aiuto è uno strumento che le persone possono decidere di usare come no, ma soprattutto non è l’unica soluzione per farli uscire dal bisogno.

Vi stupireste nel vedere quanta positività genera nella vostra vita e in quella degli altri il dire dei no, il mettere una certa distanza tra voi e loro.

Se non impariamo a rispettare noi stessi, i nostri bisogni, come possiamo essere d’aiuto? Come possiamo sostenere l’altro a raggiungere il SUO di benessere ?

 A volte siamo così immedesimati nel ruolo di salvatori che non ci rendiamo conto di quanto limitiamo nel prossimo l’autodeterminazione e l’esperienza. Inoltre, noi non siamo felici, siamo stanchi e svuotati. Viviamo con l’idea che non ci sarà mai tempo per noi, per il nostro benessere.

Naturalmente non dico di assumere un atteggiamento ostile e menefreghista, dico solo di provare a capire fin dove per voi è sano spingersi e, soprattutto, se è utile per l’altro.

Ti capita spesso di trovarti in situazioni simili?
Non sai come fare?

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